martedì 21 ottobre 2014

...e se i tuoi occhi fossero i miei?

Il lavoro di medico è un lavoro particolare, sicuramente delicato e pieno di grandi responsabilità, forse, per certi versi, la "mitizzazione" della medicina è ingiustificata, esistono lavori più stressanti, faticosi, nei quali alla fatica fisica o psicologica non si accompagna un adeguato compenso economico (non è che i medici in generale guadagnino così tanto, ma c'è chi sta peggio), non si tratta quindi di un lavoro "eroico", è un mestiere come un altro, ma ha una caratteristica che forse non ha nessun'altra professione: il contatto con le persone sofferenti, con il dolore e con momenti intimi e che quasi nessuno condivide con gli altri. Tutte le professioni sanitarie hanno questa caratteristica, dall'infermiere, all'ostetrica, l'operatore socio-sanitario, si lavora spesso con chi sta male, con chi ha una fragilità o un dolore. Ma il medico è quasi sempre quello che deve decidere, agire, comunicare.
Forse è per questo e per mantenere una corazza fatta di sicurezze e certezze molto fragili che si scontrano con l'essere degli umani assolutamente normali, che difficilmente un medico racconta le sue debolezze, le indecisioni, i dubbi e gli errori, il paziente vuole mettersi nelle mani di qualcuno capace dell'impossibile non di un uomo capace inevitabilmente solo del possibile.
Esistono dei momenti, durante la vita del medico, difficili e particolarmente impegnativi, ma uno, forse il più impegnativo (almeno secondo me) è quello che si prova quando hai davanti un altro essere umano che sai non avere più speranze. Davanti al dolore fisico c'è sempre la possibilità di provare a dare sollievo, persino di fronte ad una diagnosi molto grave puoi sempre sperare che le cure facciano effetto, ma quanto tutto è stato fatto, quando ogni tentativo è fallito, il medico sa che chi ha di fronte non ha un futuro.
È dura ed è molto difficile capire quale sia il comportamento più adatto.
Voglio raccontarvi una di queste storie per provare a far capire come possa essere difficile il contatto con una vita comune che però non ha speranza di continuare, come siano complicati e delicati comportamenti ordinari, come parlare, rispondere, guardare.
Una donna si presenta al pronto soccorso per dei disturbi molto vaghi, non li elenco ma si trattava di sintomi abbastanza lievi. La sottopongo a degli esami tra i quali un'ecografia ed è questa che mi porta al sospetto di un problema molto grave, un tumore, probabilmente di quelli che non lasciano molte speranze. Per avere conferma di quanto avevo visto chiamo anche un collega che ha lo stesso sospetto.
Alla paziente non diciamo tutto, spieghiamo naturalmente ciò che si vedeva, cosa poteva essere, ma provammo a non comunicare il nostro pessimismo, fondamentalmente inutile e non importante in quel momento.
Le diciamo che sarebbe stato necessario un approfondimento e così fu, gli ulteriori esami confermarono purtroppo i sospetti, si trattava di un tumore maligno di quelli più gravi.
La paziente fu sottoposta ad intervento chirurgico ed anche ciò che vedemmo con i nostri occhi non fu per niente bello, la malattia era disseminata, difficilmente estirpabile.
Dovete sapere che parlare di cancro, anche per un medico, anche per la medicina, è un tabù: una parola che terrorizza, spaventa, lascia senza fiato. Così anche tra noi che ne vediamo tanti, raramente si sentirà pronunciare quel termine. Cancro così diventa "K", si trasforma in una lettera, impersonale, neutra, che non ha nessun connotato negativo, qualcuno scrive "Ca", un tumore maligno, chiamato Ca (pronunciato "ci-a"), fa meno paura, anche a noi medici. Altri ancora assegnano un nome latino, una lingua nobile, usata forse per dare eleganza e poca cattiveria ad una parola che terrorizza: "mali moris", il "male dei mali".
Questa paura nel pronunciare quel nome scompare nei referti, che non possono mentire o nascondere ed il referto della paziente era chiaro, un tumore maligno, un cancro.
Fondamentalmente la paziente segue l'iter di tutte le donne con quel problema, si ricovera ed è sottoposta ad intervento, era una paziente tra tante, una donna elegante, giovane, simpatica, molto curata, ma non era diversa da altre, da tante donne, mamme, mogli, che avevano avuto la stessa diagnosi, è frequente entrare in confidenza con chi hai in reparto ma i pochi giorni di degenza e gli impegni non permettono di approfondire la conoscenza o di entrare più a contatto.
Fino a quando un pomeriggio viene in reparto una bambina, era la figlia della signora, circa 11-12 anni, quando vede la mamma piena di tubi, flebo, cerotti e cateteri è evidente la sua sorpresa. Ero abbastanza vicino per sentire ciò che si dicevano e la figlia chiese alla madre cosa avesse, mi colpirono le sue mani, intrecciate in uno spasmo di paura che le legava una all'altra deformandole, unite con forza, in un gesto che mostrava tutto il terrore e lo sbalordimento di quella piccola donna. La mamma, per non allarmare la bambina naturalmente fu evasiva: "la mamma sta male, qualche giorno di ricovero e poi torna a casa".
Successe proprio questo, arrivato il momento della dimissione fui io a doverle spiegare cosa sarebbe successo, l'intervento era andato bene così come la convalescenza, le spiegai che sarebbe stata sottoposta ad altre terapie, alla chemio, forse altri esami e che comunque ci saremmo visti per i controlli.
Mi fece una domanda precisa: "dottore, ma è grave? Quante speranze ho di farcela?". Un medico non può mentire, ma anche la verità può essere detta in tanti modi, senza bugie ma ricordandosi di avere di fronte una persona come te, io sapevo che quella donna aveva poche speranze, lo sapevo e dovevo comunicarglielo. Le dissi che la malattia era grave ma che, visto l'intervento e le successive terapie, le speranze c'erano, ci saremmo visti ed anche la voglia di combattere e l'ottimismo potevano essere delle ottime armi. Non dissi una bugia ma forse neanche tutta la verità.

Rividi la paziente dopo circa 3 mesi, stava benissimo, era tornata ad una vita praticamente normale, ben vestita, una bella espressione, vivace, era tanto in forma che stentai a riconoscerla e quando mi salutò dovetti riflettere un po' prima di ricordarmi di lei.
"Signora, ma lei è in formissima!", mi rispose che stava benino e che quando le capitava di essere un po' giù o pessimista pensava ai miei occhi ed alle mie parole e tornava subito ottimista.
Ne fui contento ma sentìi anche molta responsabilità, una parola sbagliata, una frase buttata lì, un pensiero espresso con poca attenzione, anche queste cose fanno parte della cura, anche questa è (dovrebbe essere) medicina, per lei, pensare alle mie parole ed al mio sguardo era diventato un appiglio, un incoraggiamento ed un motivo per sperare. È tanto bello quanto duro da sapere.

Persi di nuovo di vista la paziente per rivederla solo due anni dopo.
Stavolta non rividi la donna di prima, quella elegante, truccata e ben vestita, vidi una donna distrutta, trascurata, chiaramente scoraggiata. Le chiesi come andasse e mi rispose che l'ultimo controllo aveva evidenziato un ritorno della malattia e rimasi di sasso. La guardai fissa e lessi nei suoi occhi una domanda, una richiesta, in quegli occhi c'era la sua vita e cercava risposte da me, si aggrappava totalmente alle mie parole, di nuovo e provai ad incoraggiarla ancora..."vedrà signora, ce l'abbiamo fatta per due anni, ce la faremo ancora...", lei mi rispose "io non voglio vivere per due anni, voglio vivere fino a 60 anni, ho una figlia, una famiglia..." e rimasi senza parole, mentre lei aveva ancora quello sguardo pieno di domande e paura, ci guardammo per qualche minuto e riuscìi ad abbracciarla ma non ebbi la forza di dirle altro, abbassò i suoi occhi e silenziosamente si allontanò, chiamata dall'infermiera che doveva farle un prelievo.


Davanti a quello sguardo, dopo un iniziale imbarazzo, provai per qualche secondo un'indecisione, la mia mente voleva capire se dovevo comportarmi da professionista tecnicamente e freddamente ineccepibile o se fosse giusto aggiungere quello che c'è oltre il professionista, l'uomo sotto il camice bianco. Ho pensato "e se i tuoi occhi fossero i miei?".
Se un giorno avrò anche io quello sguardo da un letto di sofferenza e trovassi un mio simile al quale mi sono affidato, cosa mi aspetterei, quale sarebbe il mio desiderio?
Quegli occhi avrebbero potuto essere i miei, probabilmente lo saranno, in un letto al posto di quel paziente e di fronte a me ci sarà un altro medico al posto mio, probabilmente farei quello stesso sguardo, fisso, interrogante e speranzoso. È una sensazione strana, profonda ed hai due possibilità per risolverla: annullarla o accontentarla.
Nessuna delle due possibilità è la migliore (o almeno io non so quale sia), nessuna delle due è semplice da scegliere. Ma mi chiedo cosa vorrei io al posto del paziente, se preferirei che quel medico annullasse la sua persona per svolgere freddamente il suo compito o se preferirei che assieme al suo compito riuscisse a dirmi qualcosa, ad essere un compagno di avventura.
Non è facile, lo capisco, ma andare via avvolti dalle parole di un altro essere umano che ti accompagna nella malattia può servire a sentire il calore che manca in quei momenti.

Ebbi nuove notizie della signora circa un anno dopo, mi dissero che era ricoverata nel reparto di medicina interna, due piani sopra quello in cui lavoravo io. Aspettai di finire il turno per togliermi il camice ed andarla a salutare, in borghese, come fossi un conoscente, senza dirlo a nessuno, non andavo come medico ma come uomo.
Arrivato davanti alla sua stanza c'erano un po' di persone in attesa. Assieme alla sorella della signora altri miei colleghi, tutti in borghese. Nessuno aveva rapporti di parentela o amicizia con la signora, eravamo tutti lì, chissà perché, per un saluto, uno sguardo, eravamo lì per lei, una paziente come le altre, tanto che non ci rivolgemmo parola, come se non ci conoscessimo. Uno ad uno entrammo nella stanza. Io salutai la signora che, ormai grave, mi riconobbe e mi fece un sorriso, le dissi qualcosa, la accarezzai e la guardai negli occhi, ricordando quanto furono importanti per lei i miei occhi, le sorrisi e lasciai il posto ad un collega, uscendo pensai a sua figlia, la bambina che con le mani intrecciate dalla paura le chiedeva cosa avesse.
Ero in reparto e leggevo la posta quando mi arrivò la notizia che la signora non ce l'aveva fatta.
La pensai e, come si vede, la penso ancora oggi e di anni ne sono passati.
Non cambierà nulla della sua storia, forse non ho aggiunto nulla alla sua vita, ma il fatto che il suo ricordo è ancora qui con me è un piccolo segno che anche chi muore resta con noi.
Oltre a questo ho la convinzione che dove non arriva la medicina o dove si ferma la vita, a volte, le parole, l'uomo, un abbraccio, sono quello che chiunque in quei momenti vorrebbe avere.

Forse, se riuscissimo a vedere i nostri occhi negli occhi degli altri, di tutti gli altri, potremmo dire di vivere veramente e di vivere oltre la vita.

Alla prossima.

18 commenti:

  1. Sono commossa dal tuo racconto. Spesso anch'io ho guardato alla figura del medico come a un "salvatore" anzi come l'unico che può dare risposte e certezze. Però è chiaro che il medico è solo un uomo, non ha bacchette magiche e non può fare miracoli. Però quello che hai fatto per questa donna è moltissimo: hai cercato di guardare con i suoi occhi. Questa è una cosa meravigliosa, l'empatia è di per sé a volte una cura, e sarebbe auspicabile che ogni figura medica la utilizzasse.

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  2. Mi conforta sapere che i medici sono in fondo esseri umani come noi, ed è per questo che mi arrabbio quando qualcuno si presenta in ospedale sbraitando e pretendendo chissà che cosa, minacciando denunce e bla bla.

    Il tuo commovente ricordo mi ha riportato alla memoria quando con mia moglie andammo in ospedale per uno degli ultimi monitoraggi prima del parto, perché si era ormai all'8° mese. Forse era la posizione che aveva in quel momento, fatto sta che non riuscivano a rilevare il battito del bambino, e proprio in quel momento neppure accennava a un seppur piccolo movimento. Io e mia moglie eravamo spaventati, l'hanno caricata subito su una sedia a rotelle e ci siamo diretti su un altro piano dove c'era un ecografo, cercavano di tranquillizzarci, ma nei loro occhi vedevo quasi la stessa paura che vedevo in quelli di mia moglie, quasi fossero loro a rischiare di perdere un bambino. Quando finalmente con l'ecografo hanno trovato il battito, praticamente all'unisono abbiamo sospirato di sollievo.

    Se la gente capisse meglio che medici e infermieri sono esseri umani come noi, negli ospedali ci sarebbe molta più armonia nel rapporto medico/paziente.

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  3. Senza parole...
    Non posso far altro che pensare ad un altro caso di cancro, quello della madre di una persona a me cara.
    Cosa dire/fare in questi casi ? Non lo so proprio.
    Grazie per la tua condivisione Salvo, ti leggo sempre con interesse.

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  4. post molto toccante.
    Come hai detto, ci sono molti modi di dire la verità, e credo che un buon medico, senza regalare false speranze, debba sapere trasmettere la forza e la voglia di lottare ai suoi pazienti

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  5. Buongiorno dott. Di Grazia,
    Seguo il suo blog da un po' di tempo con interesse, ha dato conferme scientifiche a molti miei sospetti.
    Quest'ultimo post mi ha dato il "coraggio" di scrivere.
    Tutti noi, prima o poi, potremmo avere "quegli" occhi... E allora speriamo di trovarci di fronte un Medico come lei.

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  6. Grazie per questo post.
    Ho perso l'intera famiglia per quello che sulle cartelle è stato sempre chiamato K: madre, padre, quattro zii, una nonna.
    I medici sono stati a volte umani a volte no. L'ultima però era giovanissima, mi ha detto che a papà mancavano poche settimane guardandomi dritta negli occhi e dichiarando che doveva aiutarmi per "quello sguardo spaurito" che avevo.
    E' stata dura e diretta, ma mi ha fatto bene. Papà è morto cinque settimane dopo, quindi è anche una brava dottoressa.
    E' che a volte ci dimentichiamo da tutte e due le parti che siamo esseri umani da tutte e due le parti.
    Grazie Salvo.

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  7. Una lacrima ha rigato il mio volto...
    Grazie...

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  8. Ogni volta che penso alla gravidanza non andata bene di mia moglie mi vengono in mente le parole di una dottoressa che ci disse: "Si è tratta (per loro) comunque di una esperienza". In quel momento ed ancora oggi mitigano il mio dolore.

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  9. Lo stamperei e ci tappezzerei le aule di tutti gli studenti di medicina che conosco che finché stanno bene (con la mensa scontata e papino che gli paga l'affitto e le tasse universitarie) sono lesti a ripetere cinicamente che "non servono a un cazzo affetto e comprensione perché non ci curi il retinoblastoma o l'ictus".

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  10. Commovente e istruttivo davvero, grazie per questo racconto. Mi ha fatto venire in mente che anche qui, dalle mie parti, gli anziani usano dire "un maal di quii là" (un male di quelli là - ci siamo intesi). Certe cose sono così brutte che non si riesce nemmeno a chiamarle per nome.

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  11. Ho subito tanti ricoveri per patologie non gravi, ma che richiedevano comunque un intervento chirurgico in un reparto dove ci sono tanti pazienti oncologici. Ho potuto notare che alcuni medici si chiudono in una professionalità gelida: li capisco, non deve essere facile lavorare quotidianamente con persone che soffrono e che poi da un giorno all'altro non ci sono più. Tutto questo è sicuramente più del dolore che una persona normale può sopportare.
    Eppure altri non lo fanno e, il medico che ospita questo mio commento mi perdoni la generalizzazione, con me erano sempre donne. Dal chirurgo all'infermiera, alla cardiologa, al tecnico radiologo: sempre una parola gentile, una premura, qualcosa per non darmi pena inutile e anche per non farmi sentire paura (ero adolescente).
    La dottoressa che mi dava del lei a quindici anni invece mi metteva ansia.

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  12. La ringrazio per aver condiviso questa sua bella esperienza.

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  13. Erano sfuggenti, gli occhi del tecnico di laboratorio, quando ci disse che avremmo dovuto ripetere il test del sudore, perchè nostro figlio non aveva sudato abbastanza (ma che dice ? Se è fradicio ? ). Compassionevoli quelli del primario dell' ospedale pediatrico quando ci comunicò che nostro figlio aveva una scadenza scritta nei geni, che a quell' epoca non andava oltre i 10 anni. Aggiunse, allargando le braccia con aria triste/rassegnata, che dovevamo vivere giorno per giorno. O anche morire, giorno per giorno, aspettando le prime avvisaglie della malattia in quel piccolo sconosciuto di cui imparammo prima il nome della malattia, che il nome che gli avevamo dato. Sembrava che non ci fosse da fare niente altro che rassegnarsi ed aspettare. Ma per fortuna altri medici ci insegnarono a lottare , dandoci coraggio , senza illuderci ma facendoci focalizzare su atteggiamenti utili come l' aderenza alle terapie e facendoci partecipare consapevolmente e attivamente al piano terapeutico, e sottolineando i successi piuttosto che gli insuccessi. Senza questi ultimi amichevoli, disponibili, positivi incoraggiamenti, (secondo me non è un caso che i medici maggiormente capaci di empatia con il malato siano anche i più validi nel loro lavoro ) probabilmente non saremmo andati molto lontani. La vita non è un " vivere giorno per giorno" : la vita è progettazione . Togli la possibilità di progettare un futuro ad un malato, e questo morirà prima del tempo. Non parlo volutamente di speranza, ma di progetto. Niente è più utile del condividere un progetto di cura con un dottore che ci crede, anche quando si sa già in partenza che questa cura non porterà alla guarigione. Con orgoglio per il lavoro svolto e gratitudine verso chi ci ha sempre spronati a farlo , nostro figlio ha quasi doppiato la data che un tempo gli fu fissata come "scadenza" , con i suoi polmoni e un fev1 da fare invidia. Il progetto comune era semplice: le migliori condizioni al momento della cura. Quando ci sarà LA CURA ci saremo anche noi. E la Vertex con il Kalydeco dice che è vicina. E i nostri inseparabili amici medici dicono che è vicina. E io ci credo, come ho sempre fatto.
    Questa, dottore è la mia risposta da (parente di ) paziente alla sua domanda : "...o se preferirei che assieme al suo compito riuscisse a dirmi qualcosa, ad essere un compagno di avventura." Quella signora ha avuto fortuna ad incontrare lei.

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  14. Ho fatto fatica, molta, a leggere questo post.

    Non potevo che immedesimarmi negli occhi di quella paziente, ed ho immaginato le mie parole in quelle parole: "voglio vivere fino a 60 anni, ho una figlia, una famiglia...".
    Ecco... a me non basterebbero nemmeno i sessanta, per crescere come spero di poter fare sia il figlio grande che la piccola sorellina.

    E mi sono immedesimato nei tuoi occhi che guardavano quegli occhi.
    Mi sono visto accanto a te che sali al reparto in borghese per permettere all'uomo Salvo di andare a trovare quella donna che il medico Di Grazia aveva conosciuto come paziente.

    Grazie per l'umanità che traspare sempre dalle tue parole, grazie per le emozioni e grazie per questa testimonianza, non meno preziosa della lotta quotidiana al male, al dolore e alla malattia e della lotta a chi, su quel male e quel dolore, lucra con l'inganno.

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