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martedì 22 ottobre 2013

Davide e Golia (1): 10 domande a Giulio Golia sulla vicenda Stamina.

Aggiornato dopo la pubblicazione iniziale.

La vicenda Stamina (sulla quale mi sembra siano state spese sufficienti parole) sembra chiusa dal punto di vista scientifico. Ora restano da chiarire alcuni aspetti, non secondari, relativi al martellante lavoro di "cronaca" da parte della trasmissione "Le Iene" (che ha lanciato e poi sostenuto la vicenda) ed agli aspetti relativi all'esistenza di questa presunta cura all'interno di un ospedale pubblico. Vi sono altri lati della storia da chiarire, ma di questo si sta già occupando la magistratura con un'inchiesta.
Iniziamo allora a chiedere ai protagonisti di spiegare ciò che non è chiaro ed iniziamo da Giulio Golia, colui che conduce i servizi per conto de "Le Iene" e che pubblicizza l'intera vicenda, con il contributo di giornalisti scientifici e blogger che si sono occupati dell'argomento.
Mi sembra abbastanza scontato, infatti, che chi si occupa di un argomento di cronaca (lasciamo da parte la scienza per un attimo, che in questa storia c'entra davvero poco), per correttezza debba analizzarne tutti gli aspetti, la cronaca è un racconto nel quale bisogna mostrare i fatti nella loro totalità per poi lasciare trarre le conclusioni a chi legge. Nei servizi di Giulio Golia molti dei fatti non sembrano essere stati trattati allo stesso modo di altri, forse per semplice disattenzione o forse perché si voleva giungere ad una conclusione già stabilita, non è sempre facile capirlo. Ma viste le polemiche e le conseguenze dei servizi delle Iene, è spontaneo porsi alcune domande, ormai anche abbastanza spontanee dopo mesi di dibattiti sul tema. Così un gruppo formato da giornalisti scientifici, medici e blogger, ha creato una serie di domande che possono interessare chi segue la vicenda.


Facciamone allora 10 alla "Iena", sicuri che vorrà rispondere almeno per chiarirci dei dubbi, vediamo quali:

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1) Perché voi delle Iene non spingete Davide Vannoni a rendere pubblico il metodo Stamina? Se è davvero così efficace, non pensa sia giusto dare la possibilità a tutti i medici e pazienti di adottarlo?

2) Nei suoi servizi per Le Iene ci ha mostrato alcuni piccoli pazienti in cura con il metodo Stamina. Dopo otto mesi e quasi 20 puntate, perché non ha mai coinvolto le altre persone che Vannoni dice di aver curato negli ultimi anni, invitandole a mostrare i benefici del metodo stamina?

3) Perché non ha mai sentito la necessità di dare voce anche a quei genitori che, sebbene colpiti dalla stessa sofferenza, non richiedono il trattamento Stamina e anzi sono critici sulla sua adozione?

4) Nel primo servizio su Stamina lei dice che Vannoni prova a curare con le staminali casi disperati «con un metodo messo a punto dal suo gruppo di ricerca». Di quale gruppo di ricerca parla? Di quale metodo?

5) La Sma1 non sarebbe rientrata nella sperimentazione nemmeno se il Comitato l’avesse autorizzata, perché lo stesso Vannoni l’ha esclusa, ritenendola troppo difficile da valutare in un anno e mezzo di studi clinici. Come mai continua a utilizzare i bambini colpiti da questa patologia come bandiera per la conquista delle cure compassionevoli?

6) Perché non ha approfondito la notizia delle indagini condotte dalla procura di Torino su 12 persone, tra cui alcuni medici e lo stesso Vannoni, per ipotesi di reato di somministrazione di farmaci imperfetti e pericolosi per la salute pubblica, truffa e associazione a delinquere?

7) Perché non ha mai interpellato nemmeno uno dei pazienti elencati nelle indagini della procura di Torino?

8) Perché ha omesso ogni riferimento alle accuse di frode scientifica da parte della comunità scientifica a Vannoni, al dibattito attorno alle domande di brevetto e alle controversie che hanno portato a un ritardo nella consegna dei protocolli per la sperimentazione?

9) In trasmissione lei fa riferimento alle cure compassionevoli, regolamentate dal Decreto Turco-Fazio. Perché non ha spiegato che il decreto prevede l'applicazione purché «siano disponibili dati scientifici, che ne giustifichino l'uso, pubblicati su accreditate riviste internazionali»?

10) Se il metodo Stamina si dimostrasse inefficace, che cosa si sentirebbe di dire alle famiglie dei pazienti e all'opinione pubblica?

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Le domande sono state preparate in collaborazione da:


Possono essere diffuse sui social network con l'hashtag #goliarispondi

Alla prossima.

Aggiornamento (24/10/13 16.15): Nessuna risposta finora arrivata. Nessun commento (da parte di Giulio Golia). Come si dice, anche una non risposta è una risposta. Aggiornerò se ci dovessero essere novità.

venerdì 18 ottobre 2013

Sperimentazione animale: superflua o necessità?

L'argomento è interessante e dibattuto ed anche di attualità.
La sperimentazione sugli animali è l'effettuazione di test su esseri viventi a scopo di ricerca, qualcosa che serve non solo a provare l'efficacia di una molecola, ma anche a chiarirne la sua pericolosità, la tossicità, la dose utile e quella "inutile", c'è un solo passaggio che precede l'uso sull'uomo, quello su esseri più vicini possibile all'essere umano, gli animali.
Per questo motivo i test su animali oggi sono obbligatori per testare l'efficacia e la tossicità di un prodotto, l'alternativa sarebbe quella (drammatica) di passare dalla teoria (le ipotesi scientifiche e le provette) direttamente all'uomo con tutto ciò che potrebbe conseguirne.
C'è però un limite, quello etico: molti animali hanno un valore "affettivo", possono cioè rappresentare un affetto per tutti noi, i cani, i gatti ma anche altri animali, oggi sono stati addomesticati e sono spesso parte integrante delle nostre famiglie, nascono quindi diversi movimenti che protestano contro la "vivisezione" (ma è un termine corretto?) e che chiedono che si sospendano i test sugli animali a tutti i costi, a questo argomento si può ragionevolmente rispondere con il fatto che la stragrande maggioranza dei test animali a scopo scientifico sono realizzati su animali non "affettivi" quali i topi ed i moscerini. Per questo il dibattito corretto non dovrebbe essere posto solo sul piano etico ma dovrebbe considerare anche il buon senso e la logica: raggiungere un compromesso tra "etica" e "scienza", obiettivo che già da tempo è discusso proprio negli ambienti scientifici, molto raramente nei movimenti cosiddetti "animalisti".
Questi movimenti di pensiero hanno molte sfumature, da quelli più "ragionevoli" (che chiedono ad esempio di evitare i test su animali di tipo affettivo o per motivi "superflui") a quelli più ideologici (che chiedono la sospensione di qualsiasi test su animale, una prospettiva praticamente inapplicabile) fino ad arrivare a movimenti violenti (che attaccano anche fisicamente chiunque sia anche solo teoricamente a favore della sperimentazione animale).
Il problema, come spesso accade, crea fazioni, divisioni, urla e confusione ed il cittadino (quello che alla fine usa ed è destinatario di ciò che si sperimenta sull'animale) è spesso confuso, non sa bene di cosa si parla, è inondato da informazioni di tutti i tipi, molte delle quali false e strumentali. Si tende infatti a far passare l'idea che i ricercatori che sperimentano anche su animali siano persone senza scrupoli né pietà e che gli esperimenti effettuati non servano a niente. In realtà, i movimenti "contro" la sperimentazione non oppongono molti argomenti a quelli di chi spiega l'importanza dell'uso di animali nella ricerca e così il dialogo, spesso animato, si basa quasi unicamente su posizioni etiche ed affettive.
Ci sono anche molte contraddizioni che nascono obbligatoriamente, ancora di più in questo momento, nel quale il parlamento italiano sta discutendo una nuova legge sulla sperimentazione animale che contiene molti punti piuttosto discutibili. Uno di questo è quello relativo agli "xenotrapianti", ovvero il trapianto di tessuti da una specie animale all'altra. La norma è piuttosto strana, se approvata vi sarebbero conseguenze piuttosto singolari. Ad esempio continuerebbe ad essere permessa la macellazione e consumazione di suini ma sarebbe proibito usare le loro valvole cardiache per salvare la vita ad un essere umano o sarebbe permessa la derattizzazione ma proibito usare un ratto per sperimentare su problemi gravissimi come il cancro o le ustioni.

Proviamo allora a fare chiarezza e chiediamo cos'è ed a cosa serve la sperimentazione animale a chi si occupa di queste cose e lo fa per motivi di ricerca.
Propongo quindi un'intervista al dottor Giuliano Grignaschi, responsabile Animal Care Unit IRCCS Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri di Milano.

Ringraziandolo per aver concesso l'intervista credo che questa possa essere una buona occasione per chiarire qualche dubbio.

Dottor Grignaschi, iniziamo chiarendo un concetto: il termine "vivisezione" è corretto? C'è una differenza tra questa e la sperimentazione animale?

Il termine vivisezione indica, ovviamente, la sezione di un essere vivente e quindi potrebbe essere utilizzato per indicare qualsiasi intervento chirurgico, su un animale come su un uomo. Ad esempio, andando dal dentista potrei dire di essere “vivisezionato” e non sbaglierei dal punto di vista grammaticale ma sicuramente la definizione non sarebbe accettata. Il problema infatti è nel significato che comunemente si da a questo termine, utilizzato ad arte per evocare immagini di sofferenza e tortura. Per questo motivo il mondo della ricerca oggi non accetta più l’utilizzo strumentale di questo termine e vuole chiedere che si utilizzi la definizione più corretta di “sperimentazione animale”. Per quanto questa discussione possa apparire banale, va considerato il fatto che stiamo parlando di un argomento ad alto impatto emotivo quindi l’abuso di definizioni particolari, come appunto “vivisezione”, viene utilizzato per stimolare l’emotività della gente e sopraffare la razionalità. Un esempio evidente di questo è la domanda che frequentemente ci sentiamo rivolgere da attivisti di gruppi animalisti: “Perché la vivisezione non la fate sui cadaveri?”; ovviamente chi pronuncia una domanda di questo genere, sopraffatto dall’emotività, non si ferma nemmeno un attimo a ragionare sul significato di ciò che sta chiedendo. Possiamo quindi dire che la differenza tra “vivisezione” e “sperimentazione animale” è nel significato che comunemente si attribuisce ai due termini: nel primo caso una pratica rozza e crudele che è già vietata da tanto tempo mentre nel secondo caso una pratica bio-medica condotta in accordo con normative rigorose ed utilizzando le più moderne tecniche di anestesia ed analgesia.

Il punto più dibattuto e che molti non comprendono è relativo al fatto che l'uso di animali da esperimento sia così necessario. Vi sono alternative? La ricerca sulle malattie e sui farmaci ha la possibilità di affidarsi ad esperimenti senza animali?

La ricerca bio-medica ha numerosi stadi: si inizia dallo studio della biologia di base e del normale funzionamento degli organismi per poi passare alla analisi delle malattie (dell’uomo o degli animali) cercando di capire cosa sta funzionando non correttamente per poi individuare un possibile rimedio (farmaci ma anche dispositivi biomedici come pacemaker, arti meccanici etc.), da validare in test pre-clinici in cellule o con simulazioni a computer e, prima di passare nell’uomo, test pre-clinici in-vivo nell’animale da laboratorio. Dopo aver superato tutte queste fasi si può passare all’uomo, prima con volontari sani, poi piccoli gruppi di pazienti e se tutto va bene, l’ultima fase della sperimentazione è data dalla osservazione degli effetti del farmaco (o del dispositivo biomedico) quando immessi sul mercato e utilizzati da milioni di pazienti. Ognuno di questi passaggi è assolutamente necessario ed è fondamentale che venga svolto in stretta correlazione con il precedente e con il successivo allo scopo di evitare effetti disastrosi. Per essere chiaro provo ad utilizzare un esempio che conosco bene: la ricerca di terapie per la sclerosi laterale amiotrofica (quella che ha colpito molti calciatori recentemente, per intendersi). Si tratta di una patologia rara che colpisce i neuroni di moto (quelli che ci permettono di azionare la muscolatura volontaria) e li porta a morte (neurodegenerazione) nell’arco di pochi anni; la malattia purtroppo diventa evidente nell’uomo solo quando molti neuroni sono già morti e agli ammalati restano pochi anni di vita. La morte sopravviene generalmente a causa della totale paralisi della muscolatura volontaria e quindi anche di quei muscoli che ci permettono di respirare. Ad oggi purtroppo non si sa ancora per quale motivo i neuroni muoiano e quindi come fare a salvarli; inoltre è praticamente impossibile poter prelevare un neurone ammalato e poterlo studiare quindi generalmente si possono utilizzare solo tessuti provenienti da pazienti deceduti che non sono molto utili. Nello studio di questa patologia gli animali sono coinvolti in più stadi, dalla ricerca di base che cerca di individuare i meccanismi che causano la morte dei neuroni in animali ammalati, a quella farmacologica che testa tutte le possibili terapie proposte sulla base dei risultati della ricerca di base, prima di testarle nell’uomo. Senza l’aiuto del modello animale la ricerca su questa malattia sarebbe praticamente ferma poiché sarebbe difficilissimo studiarne le cause all’interno dei neuroni e sarebbe praticamente impossibile testare l’efficacia di possibili trattamenti, visto il relativamente basso numero di pazienti e la difficoltà nell’eseguire la diagnosi che, come detto, solitamente avviene quando ormai la patologia è in fase molto avanzata. In altri campi invece, quali ad esempio la tossicologia acuta, la ricerca ha individuato metodiche che non richiedono più l’utilizzo di animali da laboratorio e oggi tutto viene fatto in-vitro, con grande soddisfazione di tutti (anche delle aziende farmaceutiche che risparmiano enormi quantità di denaro). Purtroppo però questi casi sono assolutamente limitati (circa 40 metodiche alternative validate) e coprono una piccolissima parte della ricerca biomedica. 

Cosa dobbiamo alla sperimentazione animale?

Come detto la sperimentazione animale è solo un anello di una lunga catena quindi la riflessione che vorrei fare è leggermente diversa da quella che forse si aspetta. Innanzitutto c’è da dire che nella ricerca di base praticamente tutte la attività degli organismi viventi sono state evidenziate e studiate per la prima volta in animali o piante, basti pensare a Gregor Mendel, padre della genetica, che utilizzò piante di pisello per i suoi studi anche perché non gli fu consentito di utilizzare topi, considerati all’epoca assolutamente indegni di essere ospitati in un laboratorio o ancor meno in un convento. Mi piace inoltre qui ricordare inoltre il premio nobel della prof. Montalcini meritato grazie a studi di base effettuati su ratti che hanno portato all’individuazione di importantissimi fattori di crescita presenti nel cervello. Analogamente al caso della prof. Montalcini, circa il 90% dei premi nobel per la medicina sono stati assegnati a ricercatori che utilizzavano modelli animali. E’ però molto importante un altro aspetto, quello che riguarda l’enorme contributo dato dal modello animale al controllo della tossicità e degli effetti negativi delle molecole in fase di sviluppo. Ad esempio, è stato calcolato che su 100 molecole proposte come possibili chemioterapici, circa 40 vengono scartate nelle fasi di studio in-vitro o in-silico; delle 60 rimaste, circa 50 vengono scartate nelle fasi in-vivo (cioè negli studi in animali) perché non si dimostrano efficaci o perché evidenziano effetti tossici troppo elevati che nelle fasi precedenti non si erano osservati. Dei 10 rimasti, in media, solo uno arriva con successo all’uomo mentre gli altri vengono scartati perché non sono più efficaci di quelli già in commercio (o hanno più effetti collaterali). La sperimentazione animale quindi ha evitato che tante molecole non efficaci o molto tossiche arrivassero direttamente ai nostri malati. Non mi sembra davvero poco! Oggi poi si parla di Avatar e di terapia personalizzata: tumori che vengono prelevati dal paziente e inoculati ai topi nei quali si testano farmaci diversi per trovare il migliore che, una volta individuato, viene somministrato al paziente aumentando le probabilità di successo immediato.

Esistono secondo lei laboratori o sperimentatori che "trattano male" gli animali?

Non posso assolutamente escludere che esistano centri che non rispettano le normative internazionali e che non fanno buona ricerca “trattando male” gli animali e, magari, falsificando i risultati; la comunità scientifica deve essere attenta e isolare immediatamente chi non rispetta né la legge né le buone pratiche di laboratorio. Ripeto: la legge esiste e chi la vìola deve essere denunciato.
Le norme che abbiamo in Italia sono un giusto compromesso tra esigenze della ricerca e rispetto degli animali?
Le norme che abbiamo in Italia sono ottime; il D.to L.vo 116/92 che regolamenta la sperimentazione animale può sicuramente essere migliorato con il recepimento della nuova direttiva ma il livello era già ottimo. Oltre a questo mi lasci dire che la serietà e la competenza degli organismi deputati a controllare le attività dei centri di ricerca (ASL, Ministero della Salute e ISS) hanno sempre garantito il pieno rispetto della normativa vigente.

Il mio cane Frank, sano (e...molto vivace, sigh) anche grazie alla sperimentazione animale

Quali sono le precauzioni e le misure che si adottano per ridurre al minimo lo stress negli animali da esperimento?

Quella delle scienze degli animali da laboratorio è una vera e propria disciplina che negli anni ha portato ad individuare metodiche in grado di ridurre al minimo lo stress e la sofferenza degli animali da laboratorio. Innanzitutto è importante sapere che ogni laboratorio che ospita animali deve avere una speciale autorizzazione ministeriale che viene rilasciata solo se è dimostrato:

• Di possedere una struttura adeguata al mantenimento in condizioni ottimali degli animali (temperatura, umidità, ventilazione, condizioni igieniche etc). Il commento di molti medici che visitano la nostra struttura è “questi animali sono tenuti in condizioni migliori di molti pazienti”.

• Di avere un veterinario responsabile del benessere e della salute degli animali ospitati, sempre disponibile.

• Di avere personale di servizio qualificato in grado di garantire il controllo giornaliero delle condizioni degli animali.

• Di registrare puntualmente tutti gli animali inseriti nelle sperimentazioni

• Di essere in grado di controllare che tutti gli esperimenti siano stati autorizzati dalle autorità competenti.

In strutture con le caratteristiche descritte, sono numerose le procedure attuate per ridurre lo stress degli animali e vanno da lunghi periodi di ambientamento, all’arricchimento ambientale, alla manipolazione quotidiana per finire con i programmi di recupero e di reinserimento a fine sperimentazione. Noi ad esempio collaboriamo con l’associazione “La collina dei conigli” a cui affidiamo molti animali (topi e ratti) a fine sperimentazione affinchè possano essere dati in adozione. Durante le fasi sperimentali invece si fa ricorso a tutte le migliori pratiche di analgesia e anestesia disponibili poichè un animale sofferente NON E’ MAI un buon modello sperimentale. A costo di essere ripetitivo vorrei anche qui sottolineare il fatto che fare sperimentazione su animali maltrattati è eticamente sbagliato per diversi motivi: per prima cosa perché infligge una sofferenza inutile all’animale ma anche perché genera risultati non affidabili (quindi danneggia la ricerca e i malati) e causa uno spreco enorme di risorse (che molte volte derivano dalle donazioni delle famiglie degli ammalati).

Che animali si usano negli esperimenti?

In esperimenti bio medici si usano tantissime specie animali ma quelle incluse nelle norme internazionali sono solo i vertebrati; la nuova direttiva europea estende le normative anche ai cefalopodi. Per quanto riguarda i vertebrati, il numero più importante è rappresentato dai roditori (topi e ratti principalmente) che rappresentano più del 90% del totale; grande sviluppo stanno avendo nuovi modelli nei pesci mentre l’utilizzo di conigli, cani gatti e primati non umani è bassissimo e sempre in diminuzione. Numerosi studi però vengono effettuati ad esempio nelle zanzare (per combattere la diffusione della malaria) o nei famosissimi moscerini della frutta o nei cefalopodi. Il principio infatti è che la specie animale viene scelta in base a quello che si deve studiare quindi se il meccanismo di interesse è presente solo nella zanzara, si studierà in quell’animale; se poi il meccanismo di interesse è presente sia, ad esempio, nel cane che nel topo si studierà nel topo. Il virus dell’HIV purtroppo può essere studiato solo nelle scimmie quindi non si hanno alternative al loro utilizzo

Immaginiamo che da domani fosse proibito qualsiasi esperimento sugli animali, cosa succederebbe?

Visto che ancora non disponiamo di valide metodiche alternative alla sperimentazione in-vivo, succederebbe più o meno quello che circa 60 anni fa avveniva nei campi di concentramento nazisti: uomini considerati inferiori (per ragioni economiche o di razza) verrebbero utilizzati come cavie esponendoli a tutti quei rischi che ho descritto prima.

Lei ama gli animali?

Io amo molto gli animali e ne ho sempre ospitati molti in casa mia, cercando di lasciarli vivere nel rispetto delle loro caratteristiche senza cioè mai cercare di “umanizzarli” e trasformarli in qualche cosa che non sono e probabilmente non vogliono essere.

Cosa può dire a chi, amando gli animali, vive con sofferenza l'idea degli stessi nel ruolo di cavie?

Quello che voglio dire (e che dico sempre) è molto semplice: affiancateci in questo percorso e aiutateci ad individuare al più presto delle autentiche metodiche alternative. Entrate con noi nelle università e nei laboratori (solo nel 20% circa si fa sperimentazione animale quindi c’è molto spazio anche per chi non la vuole utilizzare) e impegnatevi nella ricerca! Una sera un attivista di un gruppo animalista mi ha detto che anni fa iniziò a studiare medicina veterinaria ma dopo poco abbandonò gli studi per dedicarsi al volontariato in un canile; io rispetto totalmente la sua scelta ma sono convinto che se avesse continuato gli studi e si fosse laureato oggi potrebbe essere molto più utile agli animali che ama. Tutti vogliamo smettere di servirci del modello animale ma prima dobbiamo trovare un modello migliore, altrimenti ne faranno le conseguenze i nostri ammalati e questo non è accettabile, almeno per me.
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Un doveroso ringraziamento al dott. Grignaschi per la sua disponibilità e chiarezza. Se dovesse seguirne un dibattito spero che si mantenga nei binari della civiltà e del rispetto, anche perché temi come la malattia e la ricerca non meritano di essere trattati con volgarità.

Alla prossima.

giovedì 10 ottobre 2013

Guarire miracolosamente o spontaneamente?

Quando anni fa da studente e poi da laureato sentivo parlare di guarigioni miracolose (dal punto di vista religioso) o inattese (con una cura alternativa) da malattie tumorali, il primo pensiero che facevo era relativo alle guarigioni spontanee. Si tratta di un fenomeno (raro) ben documentato che, se può essere normale in certe patologie, è sicuramente sorprendente quando si parla di malattie gravissime, come il tumore. Naturalmente, visto che sappiamo che non esiste IL tumore ma centinaia di forme di malattia diverse tra loro per caratteristiche, estensione e gravità, la guarigione sarà più o meno sorprendente ma la notizia di una guarigione "misteriosa" da un cancro è sempre stupefacente.
Da quando mi occupo di medicine alternative la mia visione delle cose è un po' cambiata. La totalità dei casi che ho analizzato (tramite documenti pubblici o inviatimi privatamente) non ha nulla di "miracoloso". Naturalmente è necessaria una conoscenza della medicina, può essere utile cercare statistiche e dati, ma alla fine i casi risolti "miracolosamente" da cure improbabili o da pratiche non scientifiche sono dovuti a ben altri motivi molto più spiegabili, noti e materiali. Il caso più comune è la guarigione dovuta a cure "standard": persone già operate, trattate con farmaci, curate con i normali protocolli medici che però si definivano malati e che alla diagnosi di guarigione (o miglioramento) dovuta alle cure la riferivano completamente alla procedura non "tradizionale" che avevano seguito. In questi casi era raramente il paziente a compiere questa operazione, molto spesso il ciarlatano a convincerlo di questo risultato.
Un altro caso abbastanza tipico è quello di certe forme di malattia con decorsi particolarmente prolungati che per anni non peggiorano o di altre forme che non richiedono alcuna terapia ma un'attenta e precisa sorveglianza. Infine il caso più drammatico (che in verità ho visto pochissime volte): la malattia avanza impietosamente ma il ciarlatano convince il paziente che va tutto bene, raccontandogli di un miglioramento che purtroppo non c'è. Prima di "studiare" i casi clinici che ricevo, alla prima lettura della storia, spesso, rimango sorpreso per il susseguirsi degli eventi: "avevo una grave malattia, non ho fatto nulla (o ho fatto la cura alternativa xyz) e sono guarito completamente". Fidandomi delle parole di chi mi scrive, il primo pensiero davanti ad un racconto sorprendente, quello più spontaneo, è: "sarà guarito spontaneamente...".

Ma esistono davvero i casi di "guarigione spontanea"? Ovvero di malattie tumorali guarite completamente senza alcun intervento (standard o ciarlatanesco)?
Sì, "tanti", nel senso che essendo avvenimenti rari e chiaramente sorprendenti, sono ben descritti in letteratura scientifica, con storie anche "note" per l'incredulità che hanno suscitato ai tempi. Il fenomeno ha del magico (ed immagino quanto ne abbia per chi ne è protagonista). Tumori diagnosticati con vari esami che dopo differenti storie cliniche (rifiuto delle terapie, rinuncia di terapia per età avanzata, abbandono per effetti collaterali gravi ed altro) sono letteralmente scomparsi ai controlli successivi. Esistono diverse forme di "regressione spontanea", a volte si tratta di sparizione temporanea con un ritorno della malattia nella stessa sede o in una diversa dalla precedente, altre (ed è questo l'evento più incredibile) di scomparsa definitiva.
Si tratta di un fenomeno talmente sorprendente che la prima domanda che si fa chi si imbatte in questo evento è quella relativa alla correttezza della diagnosi. Per questo motivo, in letteratura e nelle statistiche, si preferisce catalogare solo i casi la cui diagnosi è certa e documentata.

Anche in questo caso si è notata una differenza che dipende dal tipo e dall'estensione del tumore, ma la guarigione spontanea dal cancro è un evento conosciuto. Una statistica precisa non è ovviamente possibile, i casi di pazienti che rifiutano qualsiasi terapia sono pochi, alcuni di essi sono persone sole ed anziane che si rivolgono al medico solo in tarda età e che quindi non erano stati seguiti nel loro percorso medico e non è possibile sapere quanti di questi casi non siano mai stati rilevati, qualche statistica fa una stima generale, in 1 caso su 60.000 è possibile la regressione totale del tumore in assenza di cure, altri parlano di 1 caso su 100 in certe forme tumorali iniziali o poco gravi. Si va quindi da una frequenza rarissima ad una un po' più elevata, il problema è che si tratterebbe sempre di una sorta di "lotteria": sperare di guarire spontaneamente dal cancro, anche se lecito e comprensibile, sarebbe come puntarsi una pistola in testa sperando che per qualsiasi motivo questa non funzioni. Una curiosità può essere quella che il riscontro di tumori regrediti spontaneamente è in aumento, ma questo potrebbe essere spiegato con l'aumento degli strumenti diagnostici e con la maggiore sensibilità nei confronti del problema.

C'è un elemento che molti studi sottolineano in questi casi. La regressione spontanea del tumore spesso si è notata in concomitanza con un episodio di febbre molto alta, in altri casi dopo una vaccinazione, in altri ancora dopo un'infezione virale. Questo ha fatto pensare che un'eccezionale ed imponente attivazione del sistema immunitario potesse avere un ruolo in questo tipo di fenomeno e per questo si è cercato di studiare proprio il sistema immunitario per cercare di contenere la malattia. La ricerca nel campo dei "vaccini" antitumorali infatti è in pieno svolgimento, si cerca di attivare il sistema immunitario in maniera precisa contro quel tipo di tumore in quell'organo ed inizia ad essere osservato qualche risultato (per la verità ancora preliminare).


Come detto, i casi descritti sono diversi ed in diverse forme di malattia: un melanoma, un tumore renale, addirittura forme metastatiche o polmonari, notoriamente molto aggressive, un fenomeno descritto per i tumori di tutti gli organi persino per il tumore pancreatico, forse quello con meno possibilità di guarigione in assoluto. Talmente raro e sorprendente è il fenomeno che esistono casi unici al mondo (mai successi in quel tipo di tumore). Nonostante le attenzioni si siano concentrate sul sistema immunitario, il mistero è talmente...misterioso che le ipotesi non si contano. Oltre ai già citati meccanismi immunitari si sono studiati quelli ormonali, si sono studiati i meccanismi causa di tumore e la loro "eliminabilità", visto che viviamo in un ambiente "naturalmente" cancerogeno (sapete che persino in tutte le nostre case, per un fenomeno naturale, si accumula un gas cancerogeno?) e persino le cause "psicologiche" (che in ogni caso avrebbero un legame con il sistema immunitario, noti alcuni casi migliorati semplicemente per la convinzione di essere guariti, per una sorta di "effetto placebo" potentissimo) ma non si è giunti a nessuna conclusione definitiva e proprio per questo l'argomento è sorprendentemente studiatissimo in tutto il mondo.
Qualche numero per capire la portata del fenomeno?
In una ricerca che analizzava i casi perfettamente studiabili (di regressioni permanenti o temporanee, in tutto il mondo, presenti in letteratura) e che quindi presentavano diagnosi documentata iniziale e finale, esami diagnostici e documentazione del decorso clinico, sono stati contati 176 casi in 60 anni ed in particolare:
Rene: 31
Neuroblastoma: 29
Melanoma: 19
Coriocarcinoma (un tumore del tessuto presente in gravidanza): 19

Questi casi, da soli, rappresentavano più della metà del totale dei casi analizzati. In altre ricerche nelle quali sono stati analizzati i casi di regressione totale e permanente i numeri sono molto più piccoli.
I casi di "guarigione inspiegabile" non riguardano solo l'oncologia, in questo campo vi è una mole di studi maggiore per ovvi motivi, ma in alcuni casi i medici assistono a fenomeni difficilmente spiegabili con le conoscenze attuali e per questo lo studio delle guarigioni spontanee non è mai stato abbandonato (anche se in verità, purtroppo si tratta di casi rarissimi e sporadici).
Come detto, questi sono dati curiosi e con un fascino particolare perché potrebbero portare a percorrere nuove strade nella comprensione dei meccanismi fisiologici ma è naturalmente molto pericoloso "sperare nella fortuna" in materia di salute, si tratta sempre di casi eccezionali. Per questo motivo, quando si ha una grave malattia (e quando indicato) è sempre bene effettuare una terapia, cosa sempre giustificabile come emerge, oltre che dal buon senso, anche dai dati. Parallelamente a queste ricerche, infatti, ne esistono altre che misurano la sopravvivenza da malattia in assenza di terapia confrontandola con quella sottoposta a terapia ed i numeri parlano chiaro: non fare niente equivale a morire nel 100% dei casi, anzi, alla luce delle miracolose guarigioni spontanee, nel 99.9% dei casi.

Alla prossima.

martedì 1 ottobre 2013

Aiuto, sono allergico! Ma è proprio così?

Un argomento che sicuramente attirerà la curiosità di molti di voi. Avete presente quando vi dicono "lei è intollerante ai farinacei" oppure "lei è allergico al latte", quanti di voi si sono prestati a "test" di intolleranza in certe farmacie o erboristerie? A quanti hanno fatto afferrare dei cilindretti di metallo? Ancora peggio, a quanti hanno messo una boccetta con una sostanza in una mano e nell'altra un'altra boccetta?
Insomma, quante bufale in questo campo?

Beh, per parlarne ho chiesto a chi di test ed allergie se ne intende, ci parlerà proprio di questo e sarà un viaggio molto interessante. Ringrazio quindi la dott.ssa Sandra Perticarari, biologa, che mi ha fatto il piacere di scrivere su un argomento così interessante e precisamente documentato (come si fa quando si parla di argomenti scientifici). Buona lettura!

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Allergie, intolleranze alimentari e...bufale.

Hanno nomi che sembrano acronimi di esperimenti spaziali: VEGA, ALCAT, EAV, SARM, DRIA, invece sono test cosiddetti alternativi per la diagnosi di allergie e intolleranze alimentari. Ogni volta che mi ritrovo a parlare con qualche amica, almeno il 50% ritiene di essere “allergica” a qualcosa, il 70% pensa di essere intollerante e il 40% ha eseguito test dai nomi assurdi, per confermare intolleranze a un numero esagerato di cibi. Se sfoglio qualche rivista femminile mi trovo sommersa da consigli su alimenti da evitare. Latte e latticini, zucchero, farina di frumento, e ora anche farina di mais (transgenica!) sono demoni ammantati sotto appetibili spoglie, ma pronti a fare danni appena ingeriti.

Non parliamo poi di internet dove da un lato proliferano nei forum al femminile e nei social network allarmismi sui cibi quotidiani (pane e latte appunto), mentre da un altro abbondano consigli dietetici su integratori, sostanze naturali alternative, probiotici come lo yoghurt, che in questo caso perde la sua veste lattario-casearia e si trasforma in un quasi farmaco, panacea per ossa e intestino. Perché un aumento così tangibile di patologie riferite agli alimenti? E soprattutto perché colpiscono prevalentemente donne? Per quest’ultimo quesito sarebbe forse opportuno interrogare un sociologo o uno psicologo, ho delle teorie, ma non sono supportate da esperienze professionali, né documentabili. Per quanto riguarda l’aumento di “reazione avverse” al cibo, chiamiamole così in assenza di una diagnosi precisa, i soliti catastrofisti affermano, che l’inquinamento, i cibi industriali, la scarsa reperibilità di prodotti genuini, (e forse gli OGM) ne siano responsabili.
Ma vediamo se è vero. Innanzitutto dobbiamo fare chiarezza sui termini, chiameremo genericamente “reazione avversa al cibo” ogni forma di disturbo riferito all’ingestione di un determinato cibo. In questo ambito si distinguono le vere e proprie allergie agli alimenti, che sono reazioni immunologiche ad alcuni componenti alimentari (proteine), che scatenano una produzione di anticorpi da parte dell’organismo. Gli anticorpi prodotti sono di due tipi: quelli chiamati IgE quando la reazione avviene entro pochissimo tempo dall’ingestione del cibo incriminato, e i sintomi sono solitamente vomito, orticaria, prurito, asma e difficoltà respiratorie, fino al grave shock anafilattico. Oppure quelli detti IgG (reazione di tipo ritardato) quando i sintomi appaiono dopo diverso tempo, anche giorni dall’ingestione dell’alimento e sono di carattere variabile, dalla diarrea ad altre manifestazioni anche non correlate al tubo digerente. Poi esiste la “intolleranza alimentare” termine spesso confuso con l’allergia, che invece è un disturbo che non coinvolge il sistema immunitario, ma è dovuto o a carenze di enzimi specifici che servono a “digerire” l’alimento (come ad esempio l’enzima lattasi per l’intolleranza al lattosio), o ad un effetto tossico-farmacologico di qualche sostanza contenuta nell’alimento stesso (ad esempio i solfiti, i coloranti o additivi chimici).

Le recenti indagini epidemiologiche accreditate scientificamente riportano che le vere allergie (mediate da anticorpi) sono attorno all’ 1-4% degli adulti, mentre le intolleranze alimentari sono il 10% circa. (1,2) Negli ultimi 20 anni però la loro incidenza sembra essere raddoppiata (3). Secondo uno studio fatto in Germania nel 2000 (4) la prevalenza di ogni tipo di reazione avversa al cibo, riferita al campione di popolazione adulta studiata era del 34,9%, sulla base dei sintomi riferiti, ma questa percentuale calava al 3,7% quando veniva posta una diagnosi corretta. In base ad una statistica comparativa effettuata sempre in Germania nel 1998 l’incidenza di reazioni avverse al cibo era del 2,6%.

Questi dati sembrano confermare due cose: accanto ad un effettivo aumento delle reazioni avverse agli alimenti in generale, sembra esserci da un lato una sovrastima soggettiva da parte dei pazienti, da un altro lato probabilmente una sottostima oggettivamente diagnosticata. Negli ultimi anni è addirittura raddoppiato il numero delle diagnosi di celiachia ed è spuntata una nuova sindrome chiamata “Sensibilità al Glutine non Celiaca” (SCNG) che la comunità scientifica sta considerando come vera affezione patologica e non solo una moda dietetica senza glutine. Secondo quanto letto su alcune riviste femminili o su siti web divulgativi le “allergie” al cibo, non meglio specificate, sono largamente diffuse e causano numerosi problemi, dall’emicrania, all’artrite e reumatismi, dall’obesità all’eccessiva magrezza, inappetenza e scarsa concentrazione, nonché una serie di piccoli disturbi da cui chiunque, prima o poi, può essere colpito. Ovviamente i sintomi a volte così incerti o lievi non possono avere nessun significato diagnostico. Per essere davvero sicuri che un certo cibo faccia male occorre sottoporsi ad un qualche test.

Diciamo subito che i test per la diagnosi di reazione avversa agli alimenti, nonostante anni di ricerche in questo campo, presentano dei problemi. Non esiste un “marker” unico, dosando il quale si ha la certezza di avere una risposta positiva o negativa. I più semplici da eseguire e i più sicuri si basano sul dosaggio degli anticorpi prodotti in risposta all’alimento avverso. Sono dosabili le IgE totali, e le IgE specifiche (RAST) verso una determinata componente alimentare (allergene), ad esempio latto-proteine per allergie al latte, ovoalbumina per allergia all’uovo, e così via.
Stessa cosa per gli anticorpi IgG, in questo caso però la risposta è meno “specifica”, perché vi sono molti falsi positivi che sono il grosso problema di questo tipo di dosaggio. Esiste poi il Prick test indicato soprattutto per le vere e proprie allergie, ma meno per le intolleranze. Il test consiste nell’applicare una piccola quantità di allergene su una porzione di pelle del paziente (di solito sulla parte interna dell’avambraccio), la zona viene poi punta con un pennino sterile e si attendono alcune ore per verificare la risposta, che consiste nella formazione di un pomfo più o meno grande e arrossato. Questi test uniti alla anamnesi del paziente e ai cosiddetti test di eliminazione e reintroduzione dell’alimento sospetto, portano di solito ad una diagnosi corretta di allergia.
Nel caso di sospetto di intolleranza la diagnosi è più difficile. I dosaggi di anticorpi specifici in questo caso non sono utili, ed altri esami come il test di citotossicità o ALCAT (Antigen Leukocyte Cellular Antibody Test) avevano fornito qualche speranza, ma sono poi stati abbandonati nella pratica laboratoristica perché non riproducibili e dai risultati deludenti. Esistono alcuni esami più invasivi come il test sull’assorbimento di alcuni zuccheri, come il mannitolo o lo xilosio, zuccheri che in condizioni di normalità non vengono assorbiti dall’intestino, ma passano se l’intestino è danneggiato, e sono misurabili nelle urine. Oppure il Breath test all’idrogeno un metodo basato sul principio che alcuni zuccheri introdotti con la dieta vengono fermentati dalla flora batterica intestinale, con conseguente produzione di idrogeno e metano, tali gas vengono assorbiti a livello intestinale ed eliminati dai polmoni con l’aria espirata e possono venir dosati con strumenti appropriati. Questi test ed altri dosaggi ematici o sulle feci o le urine forniscono importanti indicazioni sullo stato di salute dell’intestino, ma ovviamente non sono direttamente correlati con il potenziale dannoso di un dato alimento. Insomma l’iter diagnostico a cui una persona deve sottoporsi se dopo avere mangiato patatine o prugne si sente depresso, abulico o con l’emicrania, non è né rapido, né foriero di un risultato certissimo. E chi soffre di qualche disturbo vuole invece risposte certe.



Ecco perché sono spuntati tanti test “non convenzionali” ovvero “alternativi” in grado di dare risposte “sicure” in tempi brevi, come il test EAV (elettroagopuntura secondo Voll, Vega test, Sarm test, Biostrength test e loro varianti), Test di provocazione/neutralizzazione, Biorisonanza, Analisi del capello, Pulse test, Test del riflesso cardiaco-auricolare, Test Melisa, Mineralogramma, Iridologia, Kinesiologia applicata (DRIA test e simili), Test Bioenergetico dei Virus e Batteri, tutti questi e altri simili non sono da considerare attendibili, in quanto non sono in grado di individuare agenti causali di presunte "intolleranze alimentari", sono privi di validazione scientifica e non sono riproducibili.

La celiachia

Un discorso a parte merita la celiachia.

Malattia che un tempo veniva chiamata “sprue” o malassorbimento, prevalente solo nella prima infanzia e molto grave. I bambini che ne erano affetti, soffrivano di diarrea persistente e malassorbimento severo, e se non curata poteva avere esito fatale. (5) La celiachia è stata considerata una malattia rara fino agli anni ’80, con una prevalenza di 1 caso ogni 2000-3000 ed esordio quasi esclusivamente pediatrico. Inoltre, la biopsia intestinale ha costituito fino a quel periodo l’unico metodo diagnostico per individuare la tipica lesione intestinale (appiattimento dei villi intestinali), un metodo invasivo a cui si sottoponevano solo i soggetti con sintomi evidenti o gravi. L’epidemiologia della celiachia è cambiata radicalmente a partire dagli anni ’90 quando, a fronte della significatività di studi clinici multicentrici, sia la diagnostica sierologica (di crescente sensibilità e specificità) sia i test genetici sono stati sviluppati e gradualmente introdotti nella pratica clinica. I principali risultati del progresso scientifico sono il drammatico aggiornamento dell’incidenza della celiachia in Italia (si stima 1 soggetto ogni 100 persone) e l’aumento degli individui diagnosticati (attualmente 20.000 nuove diagnosi all’anno, con un incremento annuo di circa il 20%) (6) La celiachia è un’intolleranza permanente su base genetica al glutine, una sostanza proteica presente in avena, frumento, farro, grano khorasan (kamut), orzo, segale, spelta e triticale. Le manifestazioni cliniche della celiachia sono estremamente variabili.
È possibile distinguere diverse forme cliniche di malattia celiaca, a seconda delle modalità di presentazione clinica (manifestazioni intestinali ed extra-intestinali, età del paziente, concomitanza di una o più patologie associate), delle alterazioni istologiche della mucosa intestinale (biopsia) e dei valori sierologici (anticorpi): la forma tipica ha come sintomatologia diarrea e arresto di crescita (dopo lo svezzamento), quella atipica si presenta tardivamente con sintomi prevalentemente extraintestinali (ad esempio anemia), quella silente ha come peculiarità l’assenza di sintomi eclatanti e quella potenziale (o latente) si evidenzia con esami sierologici positivi ma con biopsia intestinale normale. Queste due ultime forme cliniche in assenza di sintomi specifici sono diagnosticabili solo nell’ambito di “popolazione” a rischio (persone con una predisposizione genetica o con malattie autoimmuni) sottoposta a test di screening. (7,8) Per curare la celiachia, attualmente, occorre escludere dal proprio regime alimentare alcuni degli alimenti più comuni, quali pane, pasta, biscotti e pizza, ma anche eliminare le più piccole tracce di glutine dal piatto. Questo implica un forte impegno di educazione alimentare. Infatti l’assunzione di glutine, anche in piccole quantità, può provocare diverse conseguenze più o meno gravi.
Questo aspetto ha indotto l’industria alimentare allo sviluppo e alla commercializzazione di alimenti senza glutine, anni fa reperibili solo in farmacia ed ora invece presenti in molti negozi e nella grande distribuzione. Spesso nelle famiglie in cui è presente un soggetto celiaco si tende ad eliminare tutti gli alimenti contenenti glutine e anche i soggetti non celiaci si abituano a consumare prevalentemente quelli certificati privi di glutine anche se più costosi. L’offerta commerciale degli alimenti gluten-free è spesso pubblicizzata come più sana e più dietetica, con forme più o meno subdole, al punto da indurre anche soggetti sani a scegliere questi prodotti.

La stessa cosa avviene con la proposta commerciale di latte privo di lattosio, definito “più leggero” o con quella di latticini addizionati con omega-3, indicati per “prevenire” malattie cardiache. Si sfrutta la scarsa conoscenza scientifica (come è ovvio) del consumatore, per indurre la necessità di scegliere certi prodotti più costosi. Inoltre la scarsa conoscenza approfondita di un problema (come l’allergia appunto) va di pari passo con una eccesso di informazioni medico-sanitarie da cui siamo bombardati quotidianamente. L’attenzione viene focalizzata su alcuni alimenti dannosi e su patologie apparentemente molto diffuse, non molto gravi, curabili con il fai-da-te (basta eliminare il cibo incriminato) come appunto le intolleranze e le allergie, oltretutto spesso confuse e ritenute sinonimi. Questo mix produce in molti casi anche l’autodiagnosi di reazione avversa al cibo.
Ne ho sentite di tutti i colori: c’è chi sostiene di essere dimagrito togliendo dalla dieta solo il latte o il frumento, chi accusa la vitamina C (ebbene si!) di provocargli giramenti di testa e altri sintomi, chi ritiene di essere intollerante all’acido acetil salicilico, ma prende aspirine per il mal di testa, fino a chi soffre di intolleranze intermittenti, perché magari a colazione si nutre solo di alimenti dietetici per celiaci o intolleranti al lattosio, ma di sera si abbuffa (senza conseguenze) di pizza farcita con mozzarella e bufala. “Bufale” appunto (non le cito casualmente) sono le molte diagnosi di allergie immaginarie. Intendiamoci le allergie e le intolleranze sono patologie reali, esistono e sono diagnosticabili dal medico e dai test veri e accreditati. Ma se avete qualche sintomo persistente fastidioso o peggio, non vi fidate dell’amica, del giornale, dell’omeopata o del medicastro olistico, ricorrete alla medicina vera (e unica), e nel frattempo non buttate via denaro negli alimenti privi di qualcosa.

Bibliografia
1) Bengtsen U N-BU, Hanson LA, Ahlstedt S: Double blind, placebo controlled food reactions do not correlate to IgE allergy in the diagnosis of staple food related gastrointestinal symptoms.Gut 1996; 39: 130–5;
2) Lack G: Clinical practice. Food allergy. N Engl J Med 2008; 359(12)1252–60.
3) Skipala I. Adverse Food Reactions—An Emerging Issue for Adults Journal of the American Dietetic Association Volume 111, Issue 12 , Pages 1877-1891, December 2011
4) Zuberbier T, Edenharter G, Worm M, Ehlers I, Reimann S, Hantke T, Roehr CC, Bergmann KE, Niggemann Prevalence of adverse reactions to food in Germany - a population study. B. Allergy. 2004 Mar;59(3):338-45)
5) Perticarari S, Presani G, Trevisan M, Savoini A, Cauci S. Serum IgA and IgG antibodies to α-gliadin: Comparison between two ELISA methods. Ricerca in clinica e in laboratorio October–December 1987, Volume 17, Issue 4, pp 323-329
6) Mustalahti K, Catassi C, Reunanen A, Fabiani E, Heier M, McMillan S, Murray L, Metzger MH, Gasparin M, Bravi E, Mäki M; Coeliac EU Cluster, The prevalence of celiac disease in Europe: results of a centralized, international mass screening project. Project Epidemiology Ann Med. 2010 Dec;42(8):587-95. doi: 10.3109/07853890.2010.505931.
7) Lepore L, Martelossi S, Pennesi M, Falcini F, Ermini ML, Ferrari R, Perticarari S, Presani G, Lucchesi A, Lapini M, Ventura A. Prevalence of celiac disease in patients with juvenile chronic arthritis. J Pediatr. 1996 Aug;129(2):311-3.
8) Pietzak M . Celiac disease, wheat allergy, and gluten sensitivity: when gluten free is not a fad. JPEN J Parenter Enteral Nutr. 2012 Jan;36(1 Suppl):68S-75S. doi: 10.1177/0148607111426276.

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Alla prossima.